Autore: Guido GIORDANO
La porchetta è senza dubbio uno dei cibi più prelibati nella tradizione gastronomica dell’Italia centrale (Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Lazio). Il gusto ricco, la consistenza morbida delle carni, la cotenna croccante, le diverse speziature, risvegliano in noi ricordi ancestrali che si perdono nella notte dei tempi.
In letteratura la ritroviamo nell’ Odissea, quando si parla della mensa dei Proci e del porcaro Eumeo che custodisce i maiali in un recinto di pietre, per cuocerli allo spiedo dopo averli cosparsi con farina di orzo.
Intorno al X sec a.C, come si evince dal ritrovamento nella necropoli di Campli (Abruzzo) di ossa di maiali destinati al consumo umano, le popolazioni italiche erano molto abili nel macellare ed arrostire giovani maiali, realizzando un cibo molto simile alla nostra porchetta, anche se l’alimentazione umana era basata prevalentemente su legumi e ortaggi.
Per gli Etruschi la carne di maiale era considerata una vera prelibatezza, arrostita allo spiedo sopra una graticola, ma era apprezzata anche affumicata o salata, per la lunga conservazione.
Nello stesso periodo, i sacerdoti latini addobbavano il maiale da offrire a Giove in sacrificio, lungo la Via Sacra che saliva al Monte Cavo.
La sapienza millenaria nella lavorazione delle carni di maiale fu tramandata essenzialmente dalle tribù Celtiche Boi del Nord-Italia (salatura dei prosciutti nelle zone di Parma e San Daniele del Friuli) e dai Longobardi dell’Italia Centro-Meridionale (Porchetta e salumi insaccati).
Alcuni secoli più tardi, nell’antica Roma la carne di maiale era preparata con molteplici ripieni e presentata con piatti di grande effetto.
Norcia era in quell’ epoca zona di grandi allevamenti di capi di bestiame, che venivano particolarmente apprezzati nella città di Romolo. Da lì la parola “norcino”, che identificava la persona esperta nel macellare il suino e di lavorarne le carni.
Si può quindi affermare con ragionevole certezza che l’allevamento dei suini, tipico della zona dell’ Emilia Romagna, sia un’ eredità delle abitudini prese durante l’occupazione Longobarda. Infatti, nell’ Editto di Rotari (primo corpus di leggi longobarde, databile nel 643 D.C.) era previsto che il “magister porcarius” tra i servi fosse quello meglio pagato.
Farcire e cuocere allo spiedo maialini non troppo grandi era una tecnica che permetteva di conservare subito la carne. La macellazione di un maiale intero invece comportava quasi sempre la necessità di cotture in forni enormi. Neanche la tecnica per conservare la carne insaccata era alla portata di tutti: richiedeva zone collinari ventilate e sale di buona qualità.
Durante il Medioevo l’allevamento dei suini si diffuse su tutto il territorio italiano, tanto che tra il XII ed il XVII secolo la produzione di tutti gli alimenti derivati dal suino divenne un mestiere alquanto redditizio.
Ma veniamo alla porchetta di Ariccia, che in teoria non dovrebbe esistere se consideriamo che a Roma, come in tutto il resto dell’Italia Bizantina, i monaci amanuensi usavano ogni anno centinaia di pelli di pecora in forma di pergamena per copiare i testi dei libri nei loro scriptorium, per cui i latifondi delle Abbazie ospitavano greggi con decine di migliaia di pecore, forzando la popolazione a cibarsi esclusivamente di carni e formaggi di pecora.
Tuttavia, nel XVIII secolo le Marche furono sconvolte da una serie di eventi tellurici disastrosi, costringendo la ricca e potente famiglia patrizia dei Cesarini (imparentata con gli Sforza di Milano) a trasferire i superstiti dalle loro tenute marchigiane nei loro possedimenti laziali, tra Aricia e Lanuvium, chiedendo loro di dissodare e bonificare un’impenetrabile boscaglia di rovi sulle pendici occidentali del cono vulcanico che ospita il lago di Nemi, infestata da serpenti e belve feroci.
Le operose genti marchigiane riuscirono, a mani nude e nell’arco di pochi anni, a realizzare su quei terreni collinari fronte-mare un giardino lussureggiante con i vigneti e uliveti della loro tradizione contadina, riproducendo in loco anche i forni per la cottura del pane e della porchetta. Ciò consentì agli Sforza-Cesarini di avviare un ambizioso piano urbanistico (il cosiddetto “Tridente” delle olmate) e di costruire una residenza nobiliare estiva per sfuggire alla canicola romana (Palazzo Sforza-Cesarini).
La porchetta di Ariccia-Genzano, minuscola enclave marchigiana presso il lago di Nemi, oggi è famosa in tutto il mondo. Molto probabilmente ciò è dovuto al “Grand Tour”, un lungo viaggio nell’Europa continentale intrapreso dai ricchi dell’aristocrazia europea a partire dal XVIII secolo, che di solito aveva come destinazione l’Italia.
Al termine del percorso di studi universitari, i giovani dell’alta aristocrazia europea intraprendevano con entusiasmo il Grand Tour per arricchire il loro bagaglio culturale. Il Palazzo Sforza-Cesarini, con il panorama che si poteva godere dai suoi giardini all’inglese, era un’eccellente tappa di sosta e ristoro per chi percorreva l’Appia Antica.
la qualità della porchetta deriva, oltre che dalla sapienza nel trattare le carni, anche dal tipo di maiale utilizzato. Certo non è un alimento “dietetico”, e non è molto consigliato in estate, specie col gran caldo, sia dal punto di vista calorico che per le quantità di sale presenti, ma negli altri periodi è un gran bel mangiare, specie se farcisce il pane dei castelli!
Di seguito la tabella nutrizionale per 100gr di prodotto:
Valore energetico 1403 kJ / 321 kcal
- Grassi 24 g, di cui acidi grassi saturi 9,8 g
- Carboidrati 1,3 g, di cui zuccheri 1,3 g
- Proteine 26 g
- Sale 5,3 g
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